mercoledì 9 marzo 2011

LA CUCINA DI MARE CATALANA ...un po' di storia

appassionato racconto del prezioso amico Dario:
In Sardegna, assieme alla tradizione gastronomica di mare fenicio-romana e a quella genovese-pisana è indubbiamente da tenere in considerazione  quella algheresa, con forti influssi catalani e che si estende su tutta la costa da Alghero sino alle Bocche di Bonifacio.
La presenza di numerosi pirati lungo le coste dell’isola rendeva la pesca rischiosa, tuttavia da alcune carte conservate presso l’Archivio Nazionale di Madrid si apprende che nel mare di Alghero, una singola imbarcazione era capace di pescare giornalmente tra i 30 e  i 60 Kg  e che, salvo particolari circostanze, da tre a sei imbarcazioni portavano al locale mercato del pesce una quantità di prodotto sufficiente a soddisfare le esigenze dei circa 2000 abitanti che popolavano in quei tempi la  città di Alghero.
I Marsigliesi iniziarono a frequentare i banchi di Sardegna e la pesca ad Alghero (che diventata catalana, dal 1354 cambiò il nome in L’Alguer, italianizzato in “Larghieri” e simili) si sviluppò nel periodo 1380-1410 dando luogo ad una organizzazione già sofisticata nel cui ambito il naviglio provenzale faceva la spola tra Marsiglia ed il porto sardo trasportando reti e vettovaglie per i pescatori.
Il menu dei pescatori algheresi era invariabilmente a base di pesce appena pescato, che veniva lavato nell’acqua di mare per preparare la classica zuppa di pesce, detta copatza. Per cucinarla veniva usata la caratteristica pentola, comune a tutte le imbarcazioni dei pescatori, chiamata in algherese caldaru. Era un ampio recipiente di ghisa, molto capiente, che raggiungeva presto l’ebollizione e manteneva a lungo il calore. Una cordicella lo teneva sospeso ad un bastone di legno, messo di traverso su due bagli del piano di coperta, proprio sopra il braciere, collocato sul pagliolato. Quando il braciere era acceso si diffondevano per l’aria i profumi del ginepro, del lentischio e del rosmarino, essenze molto diffuse lungo le coste di tutta Sardegna.
Per preparare la copatza si utilizzava del pesce misto non commerciabile, in quanto, una volta catturato dalle reti, durante la notte veniva  mutilato in qualche parte, dai polpi o da altri predoni.
ll soffritto veniva preparato a base di cipolla, olio, prezzemolo, pomodori secchi ben tritati e l’immancabile peperoncino rosso e piccante.
A quel punto si levava per l’aria una fragranza tale da fare invidia ai migliori ristoranti della città e che invogliava al pranzo tutti coloro che passavano nelle vicinanze. I pescatori si sedevano allora attorno al tavolo, che era costituito dal timone sul quale poggiava un ampia superficie di sughero, chiamata paina, che fungeva da vassoio per il pesce. Accanto veniva sistemato un capace catino di terracotta con il brodo della zuppa, nel quale erano state immerse alcune gallette.
Un fiasco di vino rosso completava la tavola. Qualche passante che non conosceva le abitudini dei rezzaioli si fermava incuriosito ad osservare. I pescatori, sempre molto disponibili, lo invitavano a gustare il loro pranzo.  Talvolta qualcuno accettava e saliva sulla barca per assaggiare la copatza.

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